Perugia, poliziotto suicida in carcere

40enne di origini campane, sposato e con un figlio, si è ucciso mercoledì pomeriggio nella caserma agenti della prigione di Capanne

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Un poliziotto penitenziario, 40enne di origini campane, sposato e padre di un bambino, in servizio nel carcere di Capanne (Perugia) si è tolto la vita mercoledì pomeriggio nella caserma agenti del carcere. A dare la notizia è stato Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria.

Morti ingiuste «Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria», dice Bonino. «Tragedie che ogni volta che si ripetono determinano in tutti noi grande dolore e angoscia. E ogni volta la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti ingiuste? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo? Siamo vicini alla moglie, al figlio, ai familiari e agli amici».

Correlazione suicidio/lavoro Anche Donato Capece, segretario generale del Sappe, ha commentato la tragedia: «Sono davvero sgomento. Solo nel mese di agosto si erano tolti la vita due poliziotti penitenziari. E dal 2000 ad oggi oltre 100 sono stati i casi di suicidio nel corpo di polizia e dell’amministrazione penitenziaria. Non sappiamo se vi siano correlazioni con il lavoro svolto. Ma è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese: il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette ‘professioni di aiuto’, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza. Il riferimento è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere».

Drammatica realtà «L’amministrazione penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà. Non si può pensare di lavarsi la coscienza istituendo un numero di telefono – peraltro di Roma– che può essere contattato da chi, in tutta Italia, si viene a trovare in una situazione personale di particolare disagio. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del Personale di Polizia Penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria», conclude Capece.

Quinto suicidio nel 2016 «Questo è il quinto suicidio nel 2016 – dice Leo Beneduci, segretario generale dell’ Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria –  di appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (Trieste, Massa Carrara, Poggioreale, Cremona) più altri due tentativi di suicidio posti in essere e che hanno ridotto in gravissime condizioni di salute altro personale del corpo. Le motivazioni di tali azioni probabilmente non hanno come causa principale le condizioni di lavoro all’interno degli istituti penitenziari, ma sicuramente le stesse condizioni non possono non influenzare negativamente chi giunge a gesti cosi estremi, atteso che, il tasso di suicidi nella polizia penitenziaria, è almeno il doppio di quello che si verifica nella popolazione Italiana».

Rischi e sfiducia «D’altra parte – aggiunge Beneduci – a parte la gravissima carenza di personale, i rischi e la sfiducia che caratterizzano il lavoro in un contesto penitenziario quanto mai povero di risultati in termini, sia di maggiore sicurezza per la collettività e sia di effettivo reinserimento sociale dei detenuti, così come prescrive la carta Costituzionale, rispetto a tali drammatici episodi non vanno sottovalutati gli effetti dell’attuale politica penitenziaria rivolta a tutelare pressoché esclusivamente i detenuti ristretti in carcere piuttosto che il personale di polizia penitenziaria. E quindi è auspicabile – conclude il segretario – anche per un effettivo miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane, il concreto rinnovamento dell’amministrazione penitenziaria centrale a partire dall’avvicendamento degli attuali vertici».

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