Ora nasce il problema degli addetti alle consegne a domicilio

Coronavirus, con la chiusura dei negozi impennata degli acquisti a distanza. Ma i facchini possono diventare vettori di virus. La denuncia di un lavoratore umbro

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di Pietro Cuccaro

Ora che tutto è fermo, a muoversi sono soprattutto loro: gli addetti alle consegne a domicilio, che lavorano per grandi società o piccole ditte in appalto oppure ancora che sono stati precettati da esercizi commerciali e ristoranti per portarci direttamente a casa merci e cibo. Un settore in rapida espansione che con l’emergenza coronavirus è letteralmente esploso. In teoria, però, quello che sembra essere il rimedio migliore per fare acquisti senza dover uscire ed esporsi al contagio potrebbe diventare a sua volta veicolo di propagazione del virus. Un aspetto finora sottovalutato, che invece viene denunciato a umbriaOn.it con dovizia di particolari da un addetto umbro, dipendente di una importante società di consegne, di cui conserveremo l’anonimato.

Il racconto

«Cosa ne so io – si lamenta al telefono con umbriaOn.it l’addetto, dopo l’ennesimo turno massacrante –  se il vecchietto a cui sono andato a consegnare un prodotto e che mi ha parlato a mezzo metro dalla faccia è malato oppure no? Sono tenuto a portargli la merce che ha ordinato, a porgergli la penna per firmare, magari a prendere i suoi soldi in contanti, in ogni caso ad avvicinarmi a lui per dargli il pacco, talvolta persino ad entrare a casa sua. E subito dopo non ho certo la possibilità di lavarmi le mani. Devo andare a fare la consegna successiva. Certo, io posso avere la mascherina, ho i guanti. Ma la mascherina con l’umidità e il sudore dura pochissimo e quei guanti si contaminano facilmente… e possono portare il virus nelle case». Considerazioni certo giuste, che però vanno in contrasto con l’input che arriva dall’alto: non uscite, ordinate se vi serve qualcosa.

«Tanti prodotti inutili»

«Io capisco che ci sono certe consegne che vanno assolutamente fatte: i farmaci agli anziani o i prodotti ai negozi di alimentari che restano aperti. Quelli sì, ci mancherebbe. Va bene anche consegnare le mascherine o i pannolini e il latte per i bambini alle famiglie che non vogliono uscire di casa. Ma io in questi giorni ho fatto decine e decine di consegne che arrivavano da aziende ben conosciute, che commercializzano prodotti non necessari: vestitini, collanine, giocattoli… tutti prodotti di cui in questo periodo si può fare a meno. Consegne fatte non a negozianti ma a privati».

La proposta

«La soluzione sarebbe semplice – continua l’addetto – e cioè stabilire una pausa per tutti i prodotti non fondamentali; in modo da alleviare il nostro lavoro e non esporci a troppi contatti giornalieri. Inoltre, per evitare di doverci avvicinare alle persone, si deve imporre il pagamento anticipato obbligatorio e al tempo stesso eliminare l’obbligo della firma. Quella penna passa ogni giorno in centinaia di mani e io non posso sterilizzarla ogni volta». Al momento alcune aziende hanno dispensato gli addetti dall’obbligo, ma formalmente la procedura è complessa: «I clienti devono comunicare l’autorizzazione alla firma alla sede e noi dobbiamo scrivere dpcm che verrà di seguito confrontato con il cliente. Se il cliente non comunica l’autorizzazione tecnicamente facciamo una firma apocrifa».

La tutela della salute

Altro capitolo è la tutela della salute dei lavoratori: «I nostri datori di lavoro non ci mettono in condizione di lavorare in modo sicuro. Le mascherine sono poche e spesso dobbiamo comprarcele da soli. Così come l’amuchina disinfettante. Perché certo io non mi posso lavare le mani ad ogni consegna. Infine c’è un discorso legato alle zone ex rosse. Quelle dove si sono verificati i contagi: io non posso essere obbligato ad andare a consegnare un pacco in un comune dove c’è stato un contagio, capitando magari proprio in una casa o in una azienda dove è stata messa in quarantena una persona positiva al tampone». 

«Tanti precari, nessuno protesta»

Ragionamenti sacrosanti, che hanno una loro logica, ma che finora in pochi avevano fatto pubblicamente; anzi spingendo le persone ad ordinare online. Perché? «Il motivo è semplice: in molti nel nostro campo sono precari. I contratti sono flessibili, magari a tempo o part time o a chiamata. Quindi c’è poca forza da parte dei lavoratori nel far valere i propri diritti. I sindacati in questo non ci aiutano. E il risultato è questo, che siamo di fatto obbligati a lavorare il doppio mentre agli altri è chiesto o imposto di stare a casa e in questo modo mettiamo in pericolo la salute nostra e della collettività».

E in Campania si pensa di vietare le consegne delle pizze

L’addetto che abbiamo intervistato lavora nel mondo della grande distribuzione e consegna prodotti non alimentari. Ma in Italia sta nascendo anche un altra questione, legata ai ristoranti e alle pizzerie che, dovendo star chiusi la sera, si organizzano con consegna a domicilio. Certo, il ragazzo che consegna le pizze poi torna nel locale e (in teoria) si lava le mani. Ma ciò non lo mette al riparo dal contagio. E così, il governatore della Regione Campania De Luca ha annunciato un’ordinanza per impedire anche la consegna di cibo a casa: «Se anche 100 pizzerie facessero un minimo di 10 consegne al giorno potremmo avere un migliaio di contatti, con il rischio che non si rispetti la distanza minima», ha dichiarato. Un danno per tante start-up nate proprio con questa mission. Ma probabilmente un provvedimento necessario, vista l’emergenza. 

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