Politica e inchieste: «No giustizialismo»

Terni, il senatore del PD, Gianluca Rossi: «Il mio senso di giustizia non è scalfito dalla grancassa di queste settimane»

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Gianluca Rossi

Gianluca Rossi

Gianluca Rossi
Senatore del PD

Finora ho tenuto questi pensieri per me, perché sono profondamente rispettoso dell’operato della magistratura e della libertà delle persone coinvolte a difendersi pubblicamente nel modo che meglio ritengono opportuno. Inoltre, conosco e sono legato da profonda amicizia verso alcuni dei protagonisti della vicenda che ha toccato Terni.

La città non è immune dalle distorsioni che dominano questo Paese da più di venti anni e forse è giusto che chi riveste il ruolo di parlamentare dia un modesto contributo ad una discussione ricca di spunti ma povera di partecipanti. Non certo sulle inchieste giudiziarie, ma su ciò che esse ispirano e determinano in una comunità come la nostra.

E parto da come si dovrebbero rappresentare le Istituzioni. Ce lo dice la Costituzione: “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.

Qui l’architrave è il concetto di affidare: c’è un atto di fiducia tra elettore ed eletto, un sentimento che travalica le schede elettorali e salda le persone. Il dizionario spiega che affidare significa “dare in custodia, consegnare all’altrui capacità, cura o discrezione”. Questa è la funzione che gli eletti devono adempiere, con disciplina ed onore. Altri due concetti un po’ impolverati, che toccano sia la sfera pubblica che quella privata.

Io non ho dubbi nel dire che il sindaco e la sua giunta siano stati rispettosi e responsabili nel custodire il presente ed il futuro della nostra città. Così come non ho dubbi nell’affermare che ogni teorema politico secondo il quale a Terni esisterebbe una contiguità tra politica ed economia, non nell’interesse del bene comune ma della reciproca sussistenza, non solo non mi convince, ma ritengo che sia stato volutamente costruito e sottovalutato da chi oggi governa la città.

Il mio senso di giustizia non è scalfito dalla grancassa di queste settimane: nutro troppo rispetto per la Magistratura, continuo a sostenere la separazione dei poteri e, al di là delle lunghezze e farraginosità burocratiche, il nostro rimane un sistema che dà certezze sia all’accusa che alla difesa, pur in presenza di alcune distorsioni evidenti a cui il legislatore non ha posto rimedio perché affaccendato a lucrare qualche consenso in più.

Uso le parole del ministro della giustizia Andrea Orlando per mettere a fuoco un problema che ci trasciniamo dai tempi del berlusconismo: “Abbiamo utilizzato il giustizialismo come surrogato della battaglia per la giustizia sociale”. E su queste macerie oggi pasteggiano i Cinque Stelle, come ieri una certa Sinistra, facilitati dalle crescenti difficoltà (o rinunce) della sinistra riformista a dare risposte inedite a chi ci chiedeva e chiede più equità sociale.

Levando le lenti distorsive del giustizialismo e della rincorsa al tweet, si capisce che non si può bruciare ogni poco un’intera classe dirigente. Ne sono vittime (e complici) Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e la stessa Virginia Raggi. Tre persone influenti per la loro sfera di appartenenza, bruciate dalla velocità con cui si sono consumati processi sommari su padri, assessori, capi di gabinetto, bilanci e via enumerando.

Siamo tutti trasversalmente destinati ad infrangerci contro qualche avviso di garanzia, ormai politicamente più vincolante di una sentenza, se non ripensiamo e recuperiamo un ruolo della politica che sappia dare risposte e sia anche capace di una decorosa convivenza al di la della naturali differenze che devono esserci tra forze politiche alternative.

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